mercoledì 29 maggio 2013

La vendetta (sette anni dopo)


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lunedì 27 maggio 2013

La Grande Bellezza


Toni Servillo è Jep Gambardella nel film di Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza

La Grande Bellezza, un film di Paolo Sorrentino.

Anzitutto la musica. È la musica, e più precisamente la contrapposizione tra la chiassosa dance e la limpida vocalità liturgica, a farti capire che in questo film c’è il sacro e il profano. C’e Roma – silente, maestosa e placida, forte della sua storia, quasi tronfia. E ci sono gli uomini, certi uomini e certe donne che di quella bellezza e di quella maestosità ne fanno solo lo sfondo per le loro squallide imprese. Imprese mondane, vacue, trasparenti come un drink, sfavillanti come le luci stroboscopiche dei locali vip che frequentano per tentare – non riuscendoci – di dare sostanza alle loro vite.
La scena iniziale è da girone dantesco. Corpi pacchianamente agghindati si agitano al ritmo della musica da discoteca, si strusciano, si sovrappongono, si mescolano. Braccia, gambe, orecchini che sembrano lampadari, labbra rifatte, capelli cotonati. La telecamera mano a mano individua un uomo. Lo segue, gli si avvicina e, mentre la musica rallenta deformandosi nel ritmo, ecco che ci viene presentato il protagonista, Jep.
Jep Gambardella, scrittore (forse) di talento poi divenuto giornalista, ma che – una volta arrivato a Roma – viene fagocitato dalla mondanità capitolina. Fagocitato, sì, ma consapevolmente: «Non volevo essere semplicemente un mondano – spiega la sua voce fuori campo, in una delle sue passeggiate lungo il Tevere – volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste, io volevo avere il potere di farle fallire». Ed è così che decide di sprecare il tempo, di buttare via giornate che iniziano di pomeriggio, in un costante, monotono e ripetitivo jet lag. Tempo fatto di notti, di ricevimenti e inviti a casa, la casa che guarda al Colosseo (no, non è quella di Scajola). Di gente improbabile, tutta preoccupata a sembrare quello che non è.
Ma sa osservare, Jep. La sua capacità critica non è stata del tutto affossata da questa vita, Sa scorgere angoli e colori di Roma, la corsa di un bambino e il suono delle campane. Ed è ancora la musica sacra a fare da contrappunto ai momenti in cui il bello ed il vero emergono, riuscendo a squarciare il velo di una non-vita. E sa essere critico, Jep, più conscio dei suoi stessi simili, bacchettandoli quando si prendono troppo sul serio: «Sull’orlo della disperazione, non ci resta che farci compagnia, prenderci un po’ in giro».
Numerosi personaggi ruotano attorno al protagonista, senza però acquisire mai una fisionomia ben precisa. C’è Ramona, l’amica genuina, più vera di quelli solitamente frequentati da Jep. Ma è solo una meteora. C’è l’amico poeta che non sfonda e, sconfitto nella sua “lotta” con la Capitale, se ne torna in provincia.
E poi c’è il ricordo dell’amore di un tempo a rappresentare le opportunità perse, il momento in cui tutto si poteva ancora fare. Una vita in potenza che oramai vive solo nella memoria.
Sì, è tutto esagerato nel film senza trama di Paolo Sorrentino, tutto esasperato fino al ridicolo. È un ritratto impietoso di certa umanità, varia. Addirittura troppo caricaturale per essere sufficientemente intensa. Le rifatte (e i rifatti) seriali, in fila dal santone del moderno culto del fisico, fisico che deve rimanere sempre uguale a se stesso e finisce con l’essere deformato in maschere orribili e uniformate. Non manca – siamo a Roma! – il clero, gli alti prelati dediti più alla bella vita che alla spiritualità, più avvezzi a disquisire di pietanze gourmet che ad affrontare i temi della fede.
Inquietante l’umanità tratteggiata ne La Grande Bellezza. Roma, per forza indifferente, fa da sfondo ad una messinscena grottesca. Il film è spesso surreale e visionario, spiazzante.
Ma non del tutto privo di speranza. Qualcuno, come sembra succedere allo stesso Gambardella, può forse anche salvarsi. Ed è proprio grazie alla Grande Bellezza che gli appare fugace, che Jep recupera la consapevolezza. E decide di riprendere a scrivere, ricucendo – anche se in ritardo – con l’io di decenni prima. Perché, in fondo, per usare le sue parole, «è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».




venerdì 24 maggio 2013

Mario, l’Euro e la City. Mission impossible?

L’Europa ha bisogno del Regno Unito. Questo è un po’ il senso del (coraggioso) discorso di Mario Draghi ai banchieri della City di Londra. Discorso trascurato dalla stampa italiana, ma abbondantemente ripreso da quella inglese. Pur con l’intento dichiarato di non voler entrare in un dibattito tutto “domestico”, il governatore della Banca Centrale Europea ha ricordato le numerose interconnessioni tra Regno Unito ed Europa. «In virtù dei profondi legami esistenti – ha dichiarato – l’area euro e la Gran Bretagna condividono un interesse comune: quello per la stabilità nel funzionamento del nostro sistema economico, ed in particolare dei nostri mercati finanziari». Tutte le principali banche dell’Eurozona, infatti, sono presenti nel cuore della finanza londinese e, al contempo, le banche inglesi rappresentano i leading players nei mercati finanziari di tutta Europa. Senza contare che l’area-Euro rappresenta il più grande mercato delle esportazioni del Regno Unito (pari a 200 miliardi di sterline nel corso dell’ultimo anno). 
Un’eventuale uscita della Queen’s Land dall’Unione, insomma, potrebbe significare la dissoluzione delle istituzioni del continente, avverte Draghi. «E una simile scelta, sarebbe dannosa per tutti», aggiunge, facendo eco alla Cancelliera Merkel, che ha definito la Gran Bretagna “attore vitale dell’Ue”. «L’Europa ha bisogno di un’Inghilterra pienamente europea, più di quanto il Regno Unito necessiti di un’Europa più British», ha spiegato. Grazie agli interventi della Banca centrale, l’Eurozona oggi è più stabile, ma c’è ancora molto da fare. Secondo Mario Draghi, la crisi economico-finanziaria è l’occasione per far ripartire il processo di integrazione europea. Processo che non può non implicare la cessione di quote di sovranità nazionale, soprattutto  in fatto di budget e di politiche strutturali. «La risposta alla crisi – conclude il Governatore – non deve essere meno Europa, ma più Europa». 

Leggi l'articolo del The Guardian
Leggi l'articolo del The Telegraph

mercoledì 22 maggio 2013

Stockholm is burning


Auto in fiamme, sassaiole, scontri con la polizia e numerosi arresti. È guerriglia urbana a Stoccolma. Da giorni, la capitale svedese vive qualcosa di simile ai riots londinesi dell’estate 2011 e alle rivolte delle banlieu parigine di qualche anno fa. La miccia che ha fatto esplodere la rabbia dei dimostranti? La fatale uccisione da parte della polizia di un uomo di 69 anni armato di machete ad Husby, sobborgo povero epicentro della protesta. Ma il nervosismo viene piuttosto dal violento dibattito degli ultimi tempi sulla reale o meno integrazione della presenza immigrata in Svezia. Il paese, infatti, è tra quelli in Europa con il maggiore tasso di presenza immigrata (in rapporto alla popolazione di riferimento). Gli elevati livelli di disoccupazione – uniti a riemergenti forme di razzismo – hanno incendiato gli animi, fino all’escalation di violenza attualmente in corso.
«Sta avvenendo qualcosa di simile a quanto accaduto a Londra e a Parigi, anche se non ancora a quei livelli. Ma è il segnale di un malessere, è il segno del fallimento dell’integrazione», spiega al Financial Times Per Adman, professore alla Uppsala University. Secondo il Primo Ministro, Fredrik Reinfeldt, «si tratta di un gruppo di giovani convinti di poter cambiare la società con la forza». «Dobbiamo essere chiari – continua – l’uso della violenza non è un modo per dar voce alla libertà di espressione in Svezia». Un duro colpo, questo rappresentato dai riots, al modello scandinavo, a quel blend di sicurezza e flessibilità invidiato da molti e a quel Welfare State tanto sviluppato da costituire un esempio virtuoso in tutto il territorio europeo.

Leggi anche:
Londra ieri e oggi 

martedì 21 maggio 2013

giovedì 16 maggio 2013

Questione di metodo

Stefano Rodotà

Oltre ad una questione di merito, ce ne è anche una di forma. E la forma, in questi casi - si sa - è anche sostanza. Quando si parla di modificare la Costituzione, quel che rileva è non solo il "cosa" ma il "come". E lo spiega bene Stefano Rodotà, nell'intervista pubblicata oggi da Repubblica. «L'idea di una commissione estranea al Parlamento non mi è congeniale: la via corretta delle riforme costituzionali è quella parlamentare»

Materia del contendere è la proposta del governo di istituire un comitato di saggi che affianchi la Commissione affari Costituzionali e agevoli il percorso della revisione di parti della Carta fondamentale. «Si dovrebbe cominciare in Parlamento e nella sede specifica delle commissioni affari costituzionali, ripartendo il lavoro tra le due commissioni di Camera e Senato. Non costituendo una terza camera». 

Il punto, quindi, non è l'immodificabilità della Costituzione: Rodotà apre, eccome, a quegli interventi che lui definisce di "manutenzione" sulla seconda parte della Carta. «Modifiche come quelle riguardanti il bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari vanno nella direzione giusta». La questione è, piuttosto, quella di fare in modo che i lavori seguano percorsi di condivisione e di garanzia. E, in una parola, di democrazia. 

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Leggi anche la mia ultima intervista a Stefano Rodotà: Diritto d'Europa

mercoledì 15 maggio 2013

I'm an Englishman in New York



Prime Minister & Prince Harry, insieme, a New York, per promuovere l'industria e il turismo made in Britain. Lo scopo è quello di incoraggiare un numero crescente di americani non solo a visitare il Regno Unito, ma anche a considerarlo una buona opportunità per studi e business. L'evento fa parte della Great Campaign, l'iniziativa governativa a sostegno dell'immagine della Gran Bretagna in giro per il mondo. Con tanto di rieditato bus a due piani."Dobbiamo essere competitivi: Stati uniti e Inghilterra vantano intelligenza, abilità e creatività", spiega Cameron. Perché, si sa, la famiglia è un po' la stessa e - accantonati gli oramai vetusti rancori della Guerra di indipendenza - le due sponde dell'atlantico sono da tempo unite da una incontrovertibile special relationship. E chissà che anche questo viaggio - insieme alla campagna di promozione più in generale - non sia il segno della sempre crescente volontà del Regno Unito giocare da singolo, di optare per il solo, in contrapposizione ad una integrazione europea nella quale crede sempre meno.

lunedì 13 maggio 2013

Smania referendaria



In Gran Bretagna prosegue il dibattito sull'Europa. Qui Michael Gove, Ministro dell'Istruzione nell'esecutivo inglese, che si dichiara pronto a votare per uscire dall'Unione. Dichiarazioni che hanno suscitato la reazione irritata di Cameron, che ribatte: "l'opzione referendaria è solo ipotetica" (Leggi l'articolo su The Guardian). 



Sullo stesso argomento:


giovedì 9 maggio 2013

Diritto d'Europa

Stefano Rodotà




















Non è la prima volta che intervisto Stefano Rodotà, ma – oggi come allora – rimango colpita dallo stile asciutto di questo distinto signore, lucido, lucidissimo, in tutte le sue affermazioni. Ogni parola è pesata e soppesata, ha un senso e un significato preciso, al quale non si sfugge. È con lui che proviamo a fare il punto sul processo di integrazione europea, su questo contenitore troppo spesso bistrattato e mal tollerato, a volte invocato, ma quasi mai adeguatamente valorizzato, soprattutto sul versante dei diritti. Giurista di fama internazionale, Stefano Rodotà l’Europa la conosce molto bene: ha fatto parte del gruppo sull’etica per le scienze e le nuove tecnologie, è stato presidente dei Garanti dell’Ue e del Comitato scientifico dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali. Ma soprattutto, assieme ai giuristi di altri paesi, è stato uno degli estensori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Siamo soliti ritenere l’Europa la regione del mondo dove è più elevata la tutela dei diritti. La crisi ha eroso questo primato?
C’è stata un’erosione, è visibile ed è grave. Il quadro istituzionale rimane quello che conosciamo, una sorta di sistema costituzionale europeo all’interno del quale c’è una dichiarazione dei Diritti vincolante. Ma il problema è che, oggi, l’Europa rischia di ridursi al mero governo dell’economia, secondo una sorta di legge naturale del mercato. Non possiamo pensare ad un’Europa più integrata e più ricca omettendo la dimensione dei diritti.
Questa dimensione andrebbe a compensare anche la diffusa disaffezione dei cittadini nei confronti di Bruxelles…
Esattamente. Oggi l’Europa non gode di buona stampa. C’è una drammatica caduta di fiducia nei confronti delle istituzioni europee. Si può recuperare solo mostrando che dall’Unione non vengono esclusivamente diktat di natura economico-finanziaria – che spesso mortificano la stessa vita delle persone – ma c’è un valore aggiunto, rappresentato proprio dai diritti.
Ci faccia un esempio.
Tra poco sarà possibile, per i cittadini italiani, scegliere in quale dei 27 paesi dell’Unione farsi curare. A pagare sarà la ASL locale. Ecco, questo significa che il nostro diritto alla salute verrà rafforzato: potremo recarci nel paese che ci offre maggiori garanzie e una più elevata speranza di vita. Sono aspetti, questi, dei quali non si parla abbastanza, ma che possono permetterci di vedere nell’Unione europea un punto di riferimento.
Non molto tempo fa, l’ex-Presidente dell’Eurogruppo, Claude Junker, ha proposto il salario minimo europeo. Lei preferisce parlare di reddito universale di base. Che differenza c’è, esattamente?
È molto importante che Junker abbia fatto questa affermazione. Salario minimo significa dire che chi lavora non può ricevere una retribuzione inferiore ad una determinata soglia. Con l’idea di reddito, invece, ci si riferisce a tutti, anche a coloro che il lavoro non ce l’hanno. L’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione parla espressamente di “esistenza dignitosa”: l’obiettivo è non solo quello di consentire alle persone di sopravvivere, ma di vivere con dignità.
Di “esistenza libera e dignitosa” parla anche la nostra Costituzione…
Sì, l’articolo 36 della nostra Costituzione è molto chiaro quando fa riferimento ad una “esistenza libera e dignitosa”. Un paese democratico e una politica degna di questo nome devono necessariamente riconoscere un “diritto all’esistenza”.
A suo parere, quali cambiamenti sarebbero necessari nell’architettura istituzionale europea?
Occorre restituire all’Unione democraticità e legittimità. Democraticità significa far sì che non ci siano poteri sottratti ad un reale controllo democratico, quindi – in primo luogo – serve rafforzare ulteriormente il ruolo del Parlamento europeo. In secondo luogo, sarebbe opportuna un’estensione del controllo della Corte di Giustizia su una serie di procedure recentemente messe a punto. Il resto, però, deve farlo la politica, per la costruzione di un vero demos europeo.
La globalizzazione – nella sua accezione economica – è stata a lungo malvista. Ultimamente, invece, si comincia a parlare di globalizzazione dei diritti. È in corso un reale cambiamento di paradigma?
In questi anni abbiamo vissuto la globalizzazione come tendenza esclusivamente economica, una forza lasciata a se stessa, ad una pericolosa autoregolazione. La crisi che stiamo vivendo ne è la prova indiscutibile. Oggi assistiamo ad una dichiarazione continua dei diritti da parte di soggetti molto diversi tra loro: pensiamo ai bramini buddisti in Birmania, alle donne africane, ma anche alle lotte per il lavoro e per l’autodeterminazione della vita. I diritti costituiscono l’unico vero contrappeso alla pericolosa pretesa che sia la sola economia il metro di tutte le cose e che il mercato sia una sorta di legge naturale cui è impossibile sfuggire. È necessaria un’altra logica: senza un rinnovato equilibrio finiremo col perdere non solo diritti, ma anche democrazia.

Questa intervista è stata originariamente pubblicata - in data
associazione di cultura politica

mercoledì 8 maggio 2013

La storia dell'unicorno e del cambiamento climatico



Può accadere che qualcuno – e non uno qualsiasi, ma nella fattispecie lo speaker della Camera John Boehner (Partito repubblicano) – vada in giro dicendo che le teorie scientifiche sul cambiamento climatico siano pressoché infondate. O per lo meno prive di adeguate dimostrazioni. E, insieme a lui, altri membri del Congresso Usa.
A loro modo di vedere, l’annoso problema del climate change – massima sfida per le potenze industriali del 21°secolo – sarebbe ampiamente sopravvalutato e – udite, udite – non sarebbe il prodotto delle (inquinanti) attività umane. Non occorre essere eccessivamente maliziosi per ipotizzare che dietro alle affermazioni di questi deputati ci sia lo zampino delle lobbies variamente ascrivibili al settore “Oil & Gas, Coal and Utility”, solitamente molto generose nel foraggiare i politici propensi a smontare le tesi del climate change e ad ostacolare le politiche che lo combattono. 
Ed ecco allora la mail inviata (oggi, 8 maggio 2013) da Organizing for Action, il braccio informatico di Barack Obama:

Friend --

If I said to you: "Unicorns exist, I totally just saw one galloping down the street," most likely you'd give me a sad look and get on with your day.

But what if House Speaker Boehner and the chairman of the House Science Committee said they didn't know if the science behind climate change was real. (Yeah. That actually happened.)

Now obviously, it doesn't matter if I just make stuff up about unicorns. But it matters, and it matters a whole lot, that so many of our elected officials in Washington who represent us are denying science and using that denial to refuse to take action on climate change.

It's actually dangerous -- and it matters how we react.

Each and every day that congressional leaders hold on to their bizarre fantasy world, OFA is going to be there, not letting them get away with it.


We're going to make them say it out loud -- either double-down on their claims, or come to their senses. The National Academy of Sciences and more than 13,000 peer-reviewed scientific papers all confirm that the carbon pollution in our atmosphere today is causing dangerous climate change.

The sticky thing about the truth is that it's the truth whether Congress likes it or not.

Unicorns don't exist, climate change is real, and we said we weren't going to let this go.

Sign here and help Congress get real:


Thanks,

Ivan

Ivan Frishberg
Climate Campaign Manager
Organizing for Action

Sopra il video di Organizing for Action e quello – di qualche tempo fa – in cui John Boehner dichiarava in tv l’infondatezza delle teorie scientifiche sul cambiamento climatico. Suscitando lo stupore del giornalista. E di tutti noi, ça va sans dire.

martedì 7 maggio 2013

Pantheon contemporaneo















Pubblico Giuseppe Rossi, con il suo scritto, ironico ma, al tempo stesso, più vero del vero  nel tratteggiare questa idolatria dei giorni nostri, 
che - eccessiva e scomposta - mescola timori e speranze.


Secondo Carl Gustav Jung ogni civiltà ha bisogno di miti. Senza miti, senza una mitologia, non è concepibile alcuna società, alcuna comunità.
Anche la nostra civiltà della globalizzazione, dunque, pur così laica e razionalista, ha i suoi miti, esattamente come le civiltà antiche. La differenza è che queste ultime accettavano e rispettavano quella dimensione dell’esistenza, mentre noi la rimuoviamo con sdegno, ritenendola qualcosa di irrazionale e di superstizioso. Quindi, direbbe Jung, anche se noi non lo sappiamo, i miti continuano a dominare la nostra coscienza, il nostro immaginario e soprattutto il nostro inconscio collettivo.
Come le civiltà antiche avevano spesso una struttura mitologica bipolare, con due massime divinità in continuo confronto dialettico tra loro per affermare la loro influenza sul mondo (Brama --> Shiva; Osiride --> Seth; Urano --> Gaia; Jahveh --> Satana etc.), così la nostra civiltà, basata sulla tecnologia e sull'economia, ha due entità mitiche principali, due supreme divinità che si contendono la supremazia: il Mercato e la Rete.
Entrambe sono entità indefinite, evanescenti, mistiche; che dall'alto della loro "globalità" e pervasività universale decidono i destini del mondo e quindi il presente e iI futuro di noi tutti.
Non sono guidate da nessun uomo o da nessun gruppo, ma, al contrario, ad esse guardano uomini, gruppi e nazioni per conoscere i loro destini e per accettare o respingere i loro responsi e le loro irrevocabili decisioni.
Quante volte in questi ultimi tempi abbiamo sentito usare dai giornalisti e dagli esperti espressioni come queste: “…vedremo domani quale sarà la reazione del mercato...”; oppure: "…il mercato globalizzato costringe le aziende a de-localizzare..." ?
E quante volte abbiamo sentito, ad esempio nelle dichiarazioni dei grillini, espressioni come queste: "…sarà la Rete a decidere il nostro candidato..." ; oppure: "…la Rete dice che questo provvedimento è inaccettabile per il paese…" ?
Ecco dunque: le due entità vengono personalizzate. Agiscono e reagiscono come se fossero persone. Hanno un libero arbitrio, una volontà; decidono se premiare o punire, se tacere o emettere giudizi e sentenze. Ma soprattutto a volte sono imprevedibili e quasi capricciose, come appunto erano le antiche, onnipotenti divinità hindù, egizie, greche o latine... Se gli uomini non obbediscono ai loro voleri o violano l’ordine da loro stabilito, vengono severamente e intransigentemente puniti, proprio come accadeva ai vari Prometei delle mitologie antiche.
E proprio come spesso accadeva nelle mitologie antiche, una delle divinità è maschile e l'altra è femminile.
Mercato è la divinità maschile. Rappresenta la polarità paterna: severa, intransigente, inflessibile nel punire ogni trasgressione.
Rete invece é la divinità femminile e rappresenta la polarità materna. E' comprensiva, pietosa, inclusiva; è la "grande madre" che accoglie con calore nella sua immensa pancia tutti suoi "fedeli".
Diversa dunque e a volte contrastante è anche la loro azione sul mondo.
Il dio Mercato premia i popoli con manne dal cielo o li punisce con catastrofi apocalittiche. Premia i popoli che obbediscono ai suoi voleri, concedendo crescita, abbondanza, prosperità; e punisce quelli che disobbediscono o fanno finta di non conoscere i suoi categorici imperativi, infliggendo terribili stagnazioni, recessioni e vere e proprie carestie...
Mercato è misterioso nelle ragioni del suo agire, è imprevedibile, inaccessibile. A volte punisce senza pietà anche chi ha seguito fedelmente i suoi dogmi; altre volte, al contrario, grazia chi li ha contraddetti. Punisce magari immediatamente una nazione in quanto soggetta all'instabilità politica, ma può anche favorire, per sua insindacabile scelta, nazioni che sono addirittura senza governo da anni.
Solo i suoi aruspici e i suoi oracoli (i premi nobel dell’economia e i tecnocrati degli stati e dei sovrastati) possono attingere, seppure in misura minima, ai suoi segreti. Essi cercano di riconoscere e decifrare i segnali che preannunciano le decisioni del dio e subito dopo comunicano queste rivelazioni alla massa degli uomini comuni. Ma, come facevano gli oracoli greci, lo fanno solo attraverso accenni, formule ambigue e parole oscure ed enigmatiche: spread, fiscal compact, rating, differenziale, fiscal cliff...
Come abbiamo già fatto capire, il dio Mercato è terribile e irremovibile. Spesso agisce in modo crudele, incomprensibile; e sembra quasi divertirsi a giocare con i destini dei poveri mortali, proprio come se fosse una vera, spietata forza del male. Per questo è temuto e onorato; non proprio amato magari, ma rispettato per la sua incontrastabile e immensa potenza.
La dea Rete invece è misericordiosa. Interviene per spargere nel mondo giustizia ed onestà. Per mezzo dei suoi sconfinati poteri, può far venire alla luce e smascherare qualsiasi inganno o qualsiasi scorrettezza morale. Agisce come coscienza collettiva e, incrociando i dati, le intelligenze e le emozioni dei suoi miliardi di fedeli, interpreta il volere e definisce il pensiero di un'altra entità mitica operante nella civiltà della globalizzazione: la gente.
Rete (in alcune versioni dei miti chiamata anche Web) concede massima libertà ai suoi fedeli e lascia che essi si esprimano a loro piacimento in tutti i modi e in tutti i campi. Li gratifica con i mi piace e li manda in estasi con la possibilità di diventare famosi almeno per dieci minuti, attraverso l’espressione della loro creatività.
Provoca class action molto politicamente corrette e rivoluzioni democratiche anti-tiranniche; concede vittorie elettorali impreviste e imprevisti successi commerciali; permette la realizzazione di ogni sogno a coloro che capiscono il suo immenso potere e si prostrano umilmente davanti alla sua inevitabile e sempre crescente grandezza.
Fa incontrare le persone, fa nascere amicizie ed amori al di là delle distanze e dei confini, e soprattutto mette a disposizione di tutti gratuitamente cultura, arte, intrattenimento...
La dea Rete è quindi venerata con amore dai suoi fedeli. A lei ci si rivolge per risolvere problemi, per avere giustizia, per divertirsi e per esprimersi e non sentirsi soli.
Anche la dea Rete ha i suoi oracoli, i suoi profeti, i sottili conoscitori dei suoi profondi misteri. Sono i programmatori, gli influencer, gli hacker, i blogger, gli webmaster… Anche loro possono "sentire" o intuire ciò che la dea dice, cercare di interpretare quali sono i suoi voleri e poi riferirne, solo con semicomprensibili ed esoterici accenni, a coloro che costituiscono la comunità dei fedeli: i semplici utenti inconsapevoli, la massa informe e sconfinata dell' empowering people...
Spesso Rete si oppone allo strapotere del dio Mercato, cercando di temperare i suoi eccessi e di contrastare le sue decisioni unilaterali e impietose. Favorisce associazioni che cercano di rimediare in qualche modo ai suoi incontrollabili scoppi d’ira e appronta rifugi di solidarietà per chi è colpito dai suoi strali; si oppone inoltre, con una continua lotta di resistenza, al ruolo di semplice strumento al suo servizio a cui Mercato vorrebbe costringerla.
Sia la dea Rete che il dio Mercato hanno delle divinità inferiori, che collaborano alla loro azione e svolgono un po’ lo stesso ruolo che svolgevano gli angeli nella mitologia cristiana o le ninfe e i semidei nella mitologia greca.
Il dio Mercato ha al suo servizio le Agenzie di Rating, che naturalmente sono tre, come le parche e come le grazie, e si chiamano Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s.
Queste ninfe svolgono la funzione di messaggere del dio, un po’ come faceva Mercurio con gli dei dell’Olimpo. Annunciano, avvertono, mettono in guardia… Mercato le invia agli uomini prima di lanciare le sue tremende maledizioni. Se gli avvertimenti non producono frutti, scatta la punizione.
Ma le tre ninfe possono anche portare buone notizie, premiare, decretare promozioni... Come facevano gli angeli e gli arcangeli nella mitologia cristiana, esse annunciano anche la "grazia del dio" e fanno entrare almeno temporaneamente i destinatari nel paradiso della grossa liquidità e dell'affidabilità finanziaria.
I semidei al servizio della dea Rete sono invece divisi in tre categorie: i Social Network, i Motori di Ricerca e i Siti.
Le semidivinità più importanti della prima categoria sono Facebook e Twitter; quelle della seconda sono Google e Firefox; alla terza appartengono invece una miriade di semi-divinità grandi e piccole che svolazzano come uccellini nella pancia della dea. Le più importanti e famose sono Youtube e Skype e le più piccole e quasi insignificanti sono i Blog, micro-divinità alla portata di tutti che svolgono la funzione di collegamento tra i singoli utenti e la dea, un po' come facevano i penati nella civiltà latina.
Come in tutte le mitologie e in tutte le religioni, anche nella religione della civiltà globalizzata esistono dei riti iniziatici, che mettono i singoli individui in contatto con le divinità e li fanno entrare a vari livelli nella comunità dei fedeli
La cerimonia di accesso al culto del dio Mercato è la “quotazione del titolo”.
Quando un fedele decide di entrare nella cerchia privilegiata degli iniziati al culto diretto del dio, compie questo rito. Esso consiste nella dichiarazione solenne di sottomissione al giudizio quotidiano di un’altra ninfa del dio, Borsa, che giudica ogni giorno il grado di affidabilità del fedele e quindi stabilisce il valore del suo titolo nella scala gerarchica degli iniziati.
Se il fedele non resiste alla continua analisi delle sue azioni e dimostra di non reggere i continui sforzi di concorrenza a cui lo chiama il dio, il suo titolo crolla. Borsa allora dichiara il suo default e il fedele viene espulso definitivamente dalla cerchia superiore degli iniziati, diventando di nuovo un semplice consumatore. 
La cerimonia di accesso al culto della dea Rete è invece l' “account”.
Questa cerimonia - che richiede un notevole impegno ed è spesso fonte di fatica e sofferenza - ricorda il battesimo della religione cristiana. Durante il rito dell'account, infatti, il fedele riceve un username, un nuovo nome, che verrà poi usato in tutte le cerimonie informative e comunicative che si svolgeranno all'interno del "tempio". Successivamente all’iniziato viene assegnata una password, che rappresenta la formula mistica, la parola magica, necessaria per entrare in contatto con la dea.
Dopo l’attribuzione dell'username e della password, inizia per il fedele una nuova vita: quella virtuale. Egli accede definitivamente e irreversibilmente ad una nuova dimensione spirituale, che rende la vita vissuta fino ad allora, la cosiddetta "vita reale", solo un'appendice e un insignificante contorno alla nuova vita a cui ha avuto accesso.
Come in tutte le mitologie che si rispettino, la dialettica e la lotta tra Mercato e Rete durano dall'origine dei tempi e dureranno fino alla fine dei tempi, quando – dice ancora il mito - le due divinità si accoppieranno in un cosmico amplesso e dalla loro unione nascerà una figlia. Questa nuova divinità riunirà in sé la natura etica della madre e la natura economica del padre, esprimendo anche plasticamente questa unità nel suo epico ed altisonante nome: Eticonomia.

mercoledì 1 maggio 2013

Ei pensava che era stato sempre là

Liliana Lilli Bilancia Blanco, omaggio a G. Verga Novelliere, Olio su tela

























«Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la "sciara" nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il "Bestia" di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, "Malpelo" fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt'ora che mastro "Bestia" avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.
- Proprio come suo figlio "Malpelo"! - ripeteva lo "sciancato" - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di "carne battezzata". La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a "Malpelo", il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto».

da “Rosso Malpelo”, Giovanni Verga.