martedì 29 gennaio 2013

Lincoln


C’è tutto nel Lincoln di Steven Spielberg. C’è la figura istituzionale che si intreccia – più di quanto si possa credere – con l’uomo privato, con le sue difficoltà, con i suoi affetti e con le sue relazioni familiari. C’è l’annosissima questione se la bontà del fine debba necessariamente comportare la liceità dei mezzi per raggiungerlo. C’è la politica, tanta politica. Che si fa verbo, parola, per persuadere, convincere, coagulare il consenso. C’è quell’arte oratoria, ridondante e retorica, spesso affilata, tipica delle assemblee ottocentesche. Ma soprattutto c’è la libertà. L’America di quegli anni era completamente lacerata attorno al significato da dare a questa sterminata parola: da una parte, i sudisti confederati che rivendicavano la “libertà di rendere schiavi gli altri”, dall’altra il Nord, che smaniava di presentarsi al mondo come patria del progresso e delle opportunità, dove anche i neri dovevano essere liberi. Due mondi – il nord e il sud –  diversi, tanto diversi da farsi la guerra. Fatto di centri manifatturieri, commerciali e finanziari il primo, incentrato sull’agricoltura il secondo: cotone, tabacco, riso. E soprattutto schiavi, la cui manodopera non pagata era indispensabile per le colture. L’elezione dell’abolizionista Lincoln alla Casa Bianca nel 1860 fu la goccia che fece traboccare il vaso. La parola passò alle armi per cinque lunghi, lunghissimi anni. Ma non è di questo che sceglie di parlare Spielberg. La guerra c’è, si percepisce (molto) e si vede (poco), ma siamo quasi alla fine. Lincoln è appena stato rieletto al suo secondo mandato ed è più intenzionato che mai a fare approvare dal Congresso il tredicesimo Emendamento, contenente l’abolizione della schiavitù: nel 1862 il Presidente aveva già proclamato, con una legge di guerra, l’emancipazione dei neri, che andavano così ad ingrossare le fila dell’esercito nordista, ma – senza trasposizione in Costituzione – il provvedimento non avrebbe superato la fine delle ostilità. Non è affatto semplice, per Lincoln, ottenere i voti necessari. Occorre un lavorio politico di cesello, al limite (e spesso oltre) della legittimità. Costantemente stretto tra pragmatismo e tensione ideale. È così che si scambiano voti con incarichi governativi, più o meno di prestigio ma, si sa, bisogna accontentarsi. E spesso, in questi casi, occorre scendere a compromessi. Anche con se stessi. Come nel caso di Thaddeus Stevens, capo della minoranza radicale dei repubblicani. Fervente sostenitore dell’eguaglianza naturale degli uomini, Stevens è costretto a mentire di fronte ai deputati, sostenendo di credere alla sola eguaglianza “di fronte alla legge”. Solo così riesce ad ottenere l’appoggio della maggioranza del partito. Alla fine, la sospirata vittoria dei numeri arriva. E con essa un passaggio storico: la schiavitù è finita. Certo, di acqua sotto i ponti ne dovrà ancora passare molta prima del completo riconoscimento dei diritti civili e politici per gli afro-americani (lo stesso Lincoln si era opposto a che venisse loro concesso il suffragio e ci vorrà ancora un secolo, un movimento, un reverendo ed un sogno, per l’approvazione del Civil Rights Act e del Voting Rights Act).
È profondamente americano, questo film, e ci racconta di un paese dalle mille contraddizioni, che – a me che scrivevo una tesi sulle origini della democrazia statunitense e sulle differenze con quella europea e che leggevo, avida, “La Democrazia in America” di Alexis de Tocqueville – ha sempre affascinato. In “Storia della libertà americana”, Eric Foner si esprime così: «Lincoln batteva sul concetto che la schiavitù fosse incompatibile con gli ideali dei fondatori e con la missione storica della nazione nei confronti del mondo». In altri termini, «la schiavitù violava le premesse essenziali della libertà americana: libertà personale, democrazia politica, e opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita».
È proprio per questo che, in quel preciso momento, non c’era cosa migliore che il Governo “of the people, by the people, for the people” potesse fare: riaffermare, a tutti i costi, la dignità umana. 


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