lunedì 31 dicembre 2012

2012. Pictures.

Ebbene sì, lo ammetto! Non ho resistito a creare il mio personalissimo (e parzialissimo) blobbone fotografico del 2012. E così ho scelto alcune immagini - selezionate con cura e sulla scorta delle emozioni - di alcuni dei fatti che più mi hanno colpito nei mesi scorsi. 

Molti li ho raccontati in queste pagine, altri avrei voluto farlo.

Nella speranza che l’anno che viene regali a questo nostro pianeta qualche soddisfazione in più!


Re-election night: Obama alla guida degli USA. Four more years. 

    L'anti-Obama


     Escalation di violenza in Siria. Il governo di Bashar al-Assad attua una durissima repressione per recuperare i territori  controllati dai ribelli. L'opposizione e la comunità internazionale accusano le forze governative di crimini contro l'umanità. 
   
Il parcheggio allagato dei Taxi di Hoboken, New Jersey (USA), dopo il passaggio dell'uragano Sandy (ottobre)

    L'Euro e l'Europa navigano in acque tempestose. Dilagano le proteste, in particolare in Grecia.

    Europa a due velocità, sì o no?
    La Corte dell'Euro

Una delle foto simbolo del violento terremoto in Emilia Romagna (maggio)


   In Egitto Mohamed Morsi diventa capo di Stato nelle prime elezioni democratiche del paese (maggio)

Usain Bolt, Yohan Blake, Warren Weir: il podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Londra è tutto giamaicano (agosto)
Il naufragio della Costa Concordia (Gennaio) 
    Keep calm 

mercoledì 26 dicembre 2012

Chi sale e chi scende



Mentre Mario Monti tweetta della sua salita in politica, pare che Silvio Berlusconi voglia arruolare tra i suoi Gennaro Gattuso.

mercoledì 19 dicembre 2012

Dati in pasto

Mentre Facebook e Instagram fanno tremare le vene ai polsi di milioni di utenti con le loro Privacy Policy a dir poco garibaldine, mi è (ri)venuta in mente questa recente pubblicità progresso belga.

sabato 15 dicembre 2012

Smokin' Guns




“Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, non si potrà violare il diritto dei cittadini di possedere e portare armi”.
- II emendamento, The Bill of Rights
(ratificato dal Congresso degli Usa nel 1791)

Così recita l’emendamento che sa di frontiera e di pionieri, di coloni e di neonata nazione che, in crescita costante ma ancora fragile, vuole difendersi. Che parla della corsa all'ovest, di avventure e di polvere da sparo. Emendamento che oggi, 2012, quasi 2013, è ancora sacro vessillo di libertà (!) per le aree più conservatrici e retrive degli Stati Uniti.
Perché, in fondo, tutto cambia e nulla cambia. Anche nel paese per antonomasia più mutevole e più contraddittorio.
E poi c’è la NRA, National Rifle Association, potentissima lobby delle armi, tenace barriera ad ogni tentativo di legiferazione contraria ai suoi interessi. 

E così ci ritroviamo – once again – a piangere vittime su vittime. Che le lacrime di Obama lo spingano ad affrontare questa annosissima questione. Se è riuscito a vincere i forti interessi delle assicurazioni nella sanità, potrà forse far sì che gli Usa non siano più un grottesco, tragico e violento far west.

giovedì 13 dicembre 2012

Una gaffe da Nobel


La settimana scorsa l’Unione europea ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Si può essere più  o meno d’accordo (sì, l’Europa unita ha portato la pace in un continente per secoli segnato dai conflitti. No, l’Europa nel corso della attuale crisi economica non sta dimostrando la solidarietà che dice di promuovere), ma non è di questo che voglio parlare.
Quello che mi ha colpita è stata la gaffe diplomatico-politico-istituzionale che si è consumata in occasione della realizzazione del video ufficiale preparato per le celebrazioni, nella cui prima versione l’Italia era completamente bypassata, non figurando in nessun modo. Grave, gravissimo. E non solo perché il nostro paese è stato – insieme a Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo – tra i fondatori del processo di integrazione europea. Ma anche perché fondamentale è stato il suo contributo, in termini di intellettuali e di politici, al cammino europeo. Basti pensare, solo per fare i nomi più noti, ad Alcide De Gasperi e ad Altiero Spinelli. Sarà la conseguenza del ventennio berlusconiano, deleterio per l’immagine italiana in Europa o dell’intiepidirsi dell’europeismo degli italiani? Come che sia, bene hanno fatto i nostri rappresentanti a richiedere di correggere il tiro, sia pure in extremis. 

lunedì 10 dicembre 2012

Per rinfrescarci la memoria


Ieri sera Berlusconi – dopo la riunione con i vertici del Pdl – è andato a cena con quelle che pare oggi siano le sue fedelissime, nonché nuove consigliere politiche. Ecco chi sono: Francesca Pascale, nel 2009 eletta nel consiglio provinciale di Napoli con oltre 7 mila preferenze, dimessasi a giugno. E Maria Rosaria Rossi, deputata Pdl.

Ecco dei video. Per capire nelle mani di chi non finiremo. 
Non finiremo, già, perché non vedo chi possa dare il proprio consenso e il proprio voto a questo schifo.

giovedì 6 dicembre 2012

(s)parlando


Crosetto contro Berlusconi. Renzi contro Bersani. Renzi fa pace con Bersani. Santanché contro Berlusconi . Santanché fa pace con Berlusconi. Fini contro Berlusconi. Grillo contro tutti. Tutti contro Grillo. Mentre i nostri politici (s)parlano tra di loro, in America Obama parla agli elettori. Guardate qua.

Incredulità



C’è un rapporto di proporzionalità diretta tra le voci insistenti di una ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi e la mia incredulità: il 9 novembre del 2011 scrivevo questo post, nella convinzione di stare a parlare di un capitolo oramai chiuso. Definitivamente chiuso.
Descrivevo un uomo quasi sfigurato da scandali ed errori ripetuti e degradanti.

Pare impossibile che, ancora oggi, quello che quest’uomo dice e decide sia tuttora in grado di incidere in qualche modo nella vita politica del paese.


Se c’è stata una costante nell’atteggiamento di Silvio Berlusconi al potere, ebbene, questa è stata la cura dell’immagine. Un’ossessione che ha attraversato questi (quasi) 20 anni con il preciso scopo di  rimandare – chiara e diretta – un’immagine, appunto, spesso rassicurante, il più delle volte imbonitrice, comunque sorridente. A volte beffarda, ad ostentare una sicurezza che non sempre c’era. Ma – si sa – a contare è quello “che si vede”: la merce si compra per ciò che appare e l’elettore acquirente – questo il Berlusconi-pensiero – deve essere conquistato proprio dall’apparenza.

Allora ecco gli spot patinati (celebre rimane la “calza” che si è detto aver avvolto le telecamere che riprendevano l’allora fondatore di Forza Italia), i (dispendiosi) libri inviati “nelle case degli Italiani”, gli artefatti servizi sui giornali di famiglia. Magia della pubblicità e tattica da marketing che si fondono, in una strategia che lascia molto poco al caso. Una strategia inseguita a tutti i costi, fino a produrre l’immagine grottesca degli ultimi tempi, sempre più artificiale e sempre meno credibile in una patetica quanto illusoria fuga dalla vecchiaia.

Ma tra telecamere velate, trucchi di scena e cambi d’abito – un po’ come se tutto fosse, in fondo, una grande giostra o una commedia dell’arte – gli anni sono passati e, come sempre avviene, il trucco si rovina con il tempo, rivelando impietosamente tutte le debolezze che fino ad un minuto prima nascondeva. Ecco che allora oggi, a parlare più di ogni altra dichiarazione, è quel volto, cupo, quasi trasfigurato, che per la prima volta disubbidisce alla ferrea disciplina del sorridere. Non c’è più spazio per il sorriso, anche se forzato. Non è più il momento di studiare l’immagine migliore da offrire. 

Non è più tempo di mescolare estetica e potere. 

lunedì 3 dicembre 2012

Le primarie, la birra, la destra e la sinistra. E soprattutto, Gaber





In questo freddo pomeriggio post primarie, ore 17, evasi gli impegni di lavoro, sbircio su fb. Tra i mille post politici, sospesi tra il serio ed il faceto, uno – sulla pagina di Repubblica – cattura la mia attenzione. C’è la foto del neo-candidato a premier Pierluigi Bersani che spilla una birra, fotogramma di una serata di festeggiamenti. E c’è una frase, che indagatoria chiede: “La birra è di sinistra. Siete d'accordo?”.

La mente allora corre – e non può non farlo – a quel genio che era ed è Giorgio Gaber, ineguagliato per estro e intelligentissima ironia. Lo ascoltavano a casa, e a me incuriosiva molto. “Cos’è la destra, cos’è la sinistra?”, cantava, sciorinando poi una serie di luoghi comuni duri a morire nel bel paese. “Fare il bagno nella vasca
 è di destra, 
far la doccia invece 
è di sinistra”, mentre “se la cioccolata svizzera 
è di destra, 
la Nutella è ancora di sinistra”...

Divertiti (alcuni irritati) i commenti al post di Repubblica: Paolo scrive “la birra è di sinistra, lo champagne di destra e il Vin santo di centro”, mentre Vanni chiosa: “La birra è di sinistra, il PD no!!!”

Per dirla con Gaber “è evidente che la gente 
è poco seria
 quando parla di sinistra o destra”. La banalità di queste categorizzazioni, a quanto pare, non passa di moda. E, ancora oggi, ne stiamo a discutere.

“Tutti noi ce la prendiamo 
con la storia
 ma io dico che la colpa 
è nostra”, concludeva il signor G. Proprio vero

martedì 20 novembre 2012

Quando la campagna è qualunquista



Ho sempre condiviso gran parte delle battaglie di Greenpeace. Come non sostenere la “lobby buona” quando convince le multinazionali a non distruggere più le foreste per l'olio di palma o le aziende hi-tech ad eliminare gradualmente le sostanze tossiche dai propri prodotti?
Ma, questa volta, lo slogan proprio non va. Ieri, infatti, è stata lanciata la nuova campagna “Io non vi voto”, con relativa piattaforma web www.IoNonViVoto.org.
A Roma sono spuntati come funghi manifesti raffiguranti i volti dei politici nostrani. E una domanda “sei amico del petrolio e del carbone?” La mission della campagna è una e chiara (e ci piace): la sfida alla politica fossile. Ma perché inneggiare alla già dilagante antipolitica?
Il difetto non è, quindi, nella sostanza, ma nella forma. «Non è un messaggio astensionista – scrive Greenpeace, quasi a mettere le mani avanti rispetto ad uno slogan di cui forse lei per prima non è convinta – ma l'occasione giusta e imperdibile per porre delle condizioni chiare e inequivocabili ai candidati alle prossime elezioni».
E invece, a pochi giorni dalle primarie del centro-sinistra, il messaggio sembra più che mai stonato. In un momento in cui c’è forte bisogno di recuperare la buona politica, la partecipazione, il civismo, inneggiare alla sterile contrapposizione pare davvero l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno.
Sarà pur vero – e lo è – che il panorama politico italiano attuale non offre entusiasmanti prospettive. Sarà pur vero – e lo è – che molti dei nostri politici sono spesso stati colti con le mani nella marmellata di interessi sporchi, corrotti e controproducenti, anche e soprattutto in tema ambientale ed energetico. Ma un messaggio del genere, generico e generalizzante, non aiuta a salvare quello che c’è da salvare, scavando un fossato sempre più profondo tra cittadini e gestione della cosa pubblica
Senza contare che il motto fa di tutt’erba un fascio: tra i politici “additati” c’è anche Nichi Vendola, la cui attenzione per i temi dell’energia pulita, delle rinnovabili e della Green Economy è proverbiale (basti leggere il programma del Governatore della Puglia, alla voce “Energia”: «la diffusione delle energie rinnovabili elettriche può trasformare l’Italia in un paese libero dal ricatto – politico, oltre che economico – di carbone ed energie fossili»). 

lunedì 19 novembre 2012

Incontri


Quando due Premi Nobel per la Pace si incontrano, non può che essere un bello spettacolo. E proprio un bello spettacolo – carico di speranze e di buoni significati – è andando in scena in queste ore in Birmania, dove una minuta e coraggiosa signora si è incontrata con un possente e determinato uomo di colore. Aung San Suu Kyi e Barack Obama. L’una, leader dell’opposizione birmana alla dittatura, per anni prigioniera, oggi parlamentare; l’altro, neo-rieletto presidente degli Stati Uniti.

Il luogo dell’incontro è più che mai simbolico, quella "casa sul lago" a Rangoon, prigione di Aung San Suu Kyi per ben quindici anni.

Barack Obama, ancora una volta, fa la storia: è il primo presidente americano a visitare il paese asiatico. Lo fa «per sostenere il cammino della Birmania verso la democrazia». E lo fa anche per lei: «un'icona della lotta per la democrazia, che ha ispirato tante persone e non solo nel suo paese: mi ci metto anch'io», spiega Obama alla folla di giornalisti e di comuni cittadini che li ascoltano.

Il paese, governato dai militari fino agli inizi del 2011, attraversa ora una delicata fase di transizione. Molte le riforme compiute, ma molta è anche la strada che resta ancora da percorrere. Aung San Suu Kyi è cauta: «ci attendono ancora anni difficili. In questo momento è importante non essere ingannati dal miraggio del successo».

Entrambi premi Nobel per la pace, dicevamo. Lei nel 1991, “ per la sua battaglia non  violenta per la democrazia e i diritti umani”, si legge nella motivazione ufficiale. Lui nel 2009, al termine del suo primo anno di presidenza, “per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e al cooperazioe tra i popoli”.

L’abbraccio finale tra i due è intenso, una di quelle immagini destinate a durare.

Perché sono le persone a fare la storia. 


martedì 13 novembre 2012

Idoli di vecchia data

Articolo di Vittorio Zincone, Sette, Corriere della Sera 11/12/2003 (link diretto all'articolo)

Perché la rielezione di Obama fa bene all’Europa


Photo by: Scout Tufankjian for Obama for America

Con Obama ha vinto la politica che ascolta anche gli altri. E non potrebbe essere altrimenti. L’America, oramai da tempo, non può più fare da sola, come si pensava – e in molti ci avevano creduto – qualche decennio fa. Certo l’Europa, per molti versi malconcia e azzoppata, non è, ad oggi, un punto di riferimento: diversi sono gli scenari che attirano le attenzioni d’oltreoceano. Molto probabilmente, infatti, negli anni a venire gli americani guarderanno più al Pacifico che all’Atlantico, più all’Asia che all’Europa. Dopo settanta anni di diplomazia americana basata sull’alleanza con gli europei, oggi l’America è concentrata sull’Asia emergente, dove ha posizioni economico-industriali da difendere e una potenza concorrente da contrastare, la Cina. Ma, nonostante tutto ciò, Barack Obama considera il Vecchio continente un partner imprescindibile. «L’Europa è una sfida importante – ha dichiarato, poche settimane fa, di fronte ad una platea di investitori – non penso che gli europei vogliano davvero la fine dell’Euro. Ma è urgente che facciano i passi decisivi per il suo salvataggio». Non usa mezzi termini nemmeno Politico.com – Bibbia della politica interna americana – quando scrive: «Obama parla di Europa. Molto. Interroga regolarmente il Segretario del Tesoro Timothy Geithner sull’andamento della crisi e telefona spesso ai leader europei». Ma forti, anzi, fortissime, restano le divergenze di impostazione e proprio sull’economia esistono le divisioni più profonde. Se sviluppo e lavoro restano le priorità comuni, come hanno ricordato oggi Barroso e Van Rompuy, l’Ue rimprovera ad Obama di non aver fatto abbastanza per riformare una finanza fatta di speculazione, mentre dagli Usa è stata più e più volte criticata la ricetta europea, targata Gemania, del rigore. Ma non c’è solo l’economia e la finanza. Anche in politica internazionale diversi sono gli scacchieri nei quali Unione Europea e Stati Uniti possono collaborare (e hanno già iniziato a farlo). Nei mesi scorsi, ad esempio, il Dipartimento di Stato americano ha inviato a Catherine Ashton – Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza – una nota confidenziale che delinea una stretta cooperazione in Asia, con specifico riferimento ai temi dei diritti umani, della governance e degli aiuti allo sviluppo. Ma anche in Africa, dove Usa e Ue lavorano gomito a gomito alla stabilizzazione del Mali, caduto in parte sotto il controllo di una ramificazione di Al Qaeda. Se l’America e l’Europa continueranno su questa strada – dicono gli analisti – ne deriveranno vantaggi per entrambe. Di certo, l’ingresso alla Casa Bianca del repubblicano Mitt Romney sarebbe stata una pessima notizia per gli europei. Durante tutta la campagna elettorale, infatti, il candidato mormone non si è risparmiato dal bacchettare duramente l’Europa, biasimandola e stigmatizzandone natura, caratteristiche e comportamenti. E questo non solo in merito alla fallimentare gestione della crisi dell’Euro – cosa, in fondo, comprensibile – ma anche e soprattutto con riferimento al ruolo dello Stato. Perché proprio lo Stato “interventista” ha sempre rappresentato lo spauracchio numero uno dei conservatori a stelle e strisce e, con esso, la sanità pubblica e il welfare che, in tutte le sue varianti, protegge (quale misfatto!) le fasce più deboli della popolazione. Per questo e altro ancora, (ri)avere un democratico alla Casa Bianca è una buona notizia. L’America di Barack Obama ha sempre sostenuto gli sforzi europei per uscire dalla crisi puntando sulla crescita. Già, la crescita, ad oggi affossata dai diktat imposti dal rigore teutonico. Ecco perché, molti – a partire dal Presidente francese François Hollande – sperano che la rielezione di Obama incoraggi ad un cambiamento di rotta anche l’Europa. Allora non rimane che ripetere il mantra di questa campagna obamiana, con la speranza che valga anche per questa parte dell’oceano: forward!

Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato 
sul portale di Libertà e Giustizia , associazione nazionale di cultura politica

martedì 6 novembre 2012

Hello! My name is Walter




Si chiama grassoroots movement o grassoroots democracy e sta a significare quel modo –un po’ speciale e molto anglosassone – di partecipazione alla politica. Come? La base, in tutte le sue espressioni, si mobilita, producendo una felice parentesi dell’altrimenti marcato individualismo americano. Un movimento dal basso, un esercizio di quella democrazia, tutta americana, basata sul door to door e che lavora sul concetto di vicinato, tra un barbecue, una serata musicale e una lotteria.
Ecco allora che Walter, 91 anni, veterano della seconda guerra mondiale, si mette in gioco e telefona agli elettori per sostenere la rielezione di Barack Obama.
È con persone come lui che, quattro anni fa, una campagna che sembrava improbabile, divenne probabilissima e, soprattutto, vittoriosa, regalandoci il primo Presidente afroamericano della storia degli States.
Oggi ci risiamo, e si tratta della conquista di un prezioso ‘secondo tempo’. 

lunedì 5 novembre 2012

Scene di ordinario razzismo in ospedale



Sabato mattina, l'ospedale è, al solito, affollato. I corridoi pullulano di varia umanità. Aspetto l'ascensore che, anche esso al solito, non arriva mai.

Accanto a me una coppia. Sorrisi di circostanza in nome della comune attesa. Lei è incinta, come è chiaro dal grande ventre arrotondato e dalla tipica espressione, con quel misto di orgoglio e apprensione.
L’inconfondibile  suono annuncia l'arrivo dell’ascensore. Dentro ci sono tre ragazzi di colore. Della coppia, l’uomo, passo deciso, fa per entrare. Lei no. Dice no. Determinata e a voce alta. Quasi stizzita, nell’esprimere il suo rifiuto sprezzante per coloro che considera altro da sé. Sceglie di aspettare un altro ascensore, forse per lei più rassicurante.
È spaventosamente impressionante vedere come oggi – nel mondo ultraglobalizzato del 2012 – ci sia ancora qualcuno preda di un istinto tanto basso quanto probabilmente inconscio. È tremendamente inquietante vedere una giovane donna spaventarsi per qualcosa di così naturale come il colore della pelle. 
Perché nessuno, ma proprio nessuno, dovrebbe temere quelle differenze che ci rendono così uguali.

mercoledì 31 ottobre 2012

Quella di ieri e quella di oggi



Questione di parole. E di note. Nel 2008 il mantra obamiano Yes we can era stato trasformato nella omonima canzone ad opera di will.i.am. 
Oggi, Anno Domini 2012, nuova parola d’ordine, Forward, e nuova corrispondente song di Ne Yo, Johnny Rzeznik, Herbie Hancock, Delta Rae e Natasha Bedingfield. 

Enjoy! 

martedì 30 ottobre 2012

Good night, Vietnam




Rei di critica, colpevoli di libertà di espressione. Due musicisti vietnamiti sono stati condannati oggi per propaganda contro lo stato, al termine di un processo durato mezza giornata davanti ad un tribunale di Ho Chi Minh City. Il verdetto aggiunge un altro triste capitolo all'attuale giro di vite in corso contro il dissenso nel Paese. Vo Minh Tri (34 anni), meglio noto come Viet Khang, è stato condannato a quattro anni di reclusione piú due agli arresti domiciliari. Tran Vu Anh Binh (37 anni) dovrà invece rimanere in carcere per sei anni, seguiti da altri due da prigioniero in casa.
I due – in carcere dalla fine del 2011 – sono stati condannati per aver composto ed eseguito canzoni – i video circolano anche su YouTube – contro la debolezza del Governo vietnamita in merito al possesso degli arcipelaghi delle isole Spratly e Paracel, contese con la Cina nel Mar cinese meridionale. Più in generale, i loro testi parlano di temi sociali, proteste e dissidenza.
Le accuse di propaganda contro lo Stato e di tentato rovesciamento del governo, vengono regolarmente utilizzate contro dissidenti e attivisti per la democrazia, in un paese in cui il partito comunista ha oramai vietato qualsiasi tipo di dibattito politico. "È un modo grottesco di trattare le persone, colpevoli solo di aver scritto canzoni", afferma Rupert Abbott, Amnesty International, che descrive i due uomini come "prigionieri di coscienza". "Oppositori politici, blogger, poeti, e ora musicisti" Phil Robertson (Human Rights Watch), denuncia la "repressione crescente contro la libertà di espressione". A fine settembre, infatti, tre famosi blogger vietnamiti sono stati condannati al carcere pesante per "propaganda contro lo Stato", provocando numerose proteste, dagli Stati Uniti all'Unione europea. "È scandaloso – prosegue Robertson – che il governo vietnamita abbia condannato alla prigione per la scrittura e l'esecuzione di canzoni. La sfida del Vietnam alle norme internazionali in materia di diritti umani è senza limiti”. 

lunedì 29 ottobre 2012

Europa a due velocità sì o no?



Il Presidente francese François Hollande





Europa a due velocità, nocciolo duro, avanguardia: tanti nomi per un solo scenario, che vedrebbe alcuni paesi europei procedere verso percorsi più approfonditi di integrazione, avanzando autonomamente rispetto agli altri, o semplicemente precedendoli. A risollevare il dibattito sul tema – ampiamente discusso anche in passato – è il presidente francese François Hollande, in una recentissima intervista dalla grande eco mediatica. «La mia proposta è un’Europa che avanza a più velocità, per cerchi differenti». E, a suo parere, l’Europa più spedita dovrebbe coincidere con l’attuale Eurogruppo: «Abbiamo una zona Euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e richiede un nuovo governo», prosegue Hollande. «Questa zona deve prendere una dimensione politica». Secondo l’inquilino dell’Eliseo, dunque, i 17 paesi che attualmente condividono la moneta, dovrebbero istituire riunioni mensili dei rispettivi Capi di Stato e di Governo. Inoltre, il consesso dei Ministri delle finanze dovrebbe essere irrobustito e il suo presidente dovrebbe ricevere un mandato chiaro e sufficientemente lungo.

È con questa ricetta che Hollande rilancia un tema antico (perfettamente riassunto da Dastoli, Majocchi e Santaniello in “Prospettiva Europa”, 1996), già circolato tra gli intellettuali europei – europeisti o antieuropeisti, a seconda delle vocazioni e delle nazionalità – e sul quale ora sarebbe auspicabile un dibattito esteso. In principio fu Luis Armand a parlare di un’Europe a la carte, dove ognuno poteva scegliere quello che preferiva: lo sviluppo di ulteriori iniziative, in altre parole, era lasciato alla libera adesione dei singoli paesi. A metà degli anni ’70, ai tempi del Serpente monetario europeo (progenitore dell’attuale moneta unica) Willy Brandt e Leo Tindemans parlavano di Europa a due velocità: «È impossibile presentare oggi un programma d’azione credibile, se si considera assolutamente necessario che in tutti i casi tutte le tappe siano raggiunte da tutti gli stati nello stesso momento». E ancora: «la divergenza obiettiva delle situazioni economiche e finanziarie è tale che, se questa esigenza è posta, il progresso diventa impossibile».
Jacques Delors preferiva invece un’Europa “a geometrie variabili”, per permettere alla recalcitrante Gran Bretagna (e non solo a lei) di svincolarsi – attraverso specifiche deroghe – da alcuni aspetti del contesto comunitario, senza però staccarsene del tutto. Altiero Spinelli invocava, invece, un “nucleo federale” di paesi decisi a procedere lungo la strada dell’integrazione politica. Alla fine degli anni ’80, i cambiamenti economici (l’avvio dei negoziati sull’Unione economico monetaria) e geopolitici (l’imminente crollo dell’Urss) imponevano di ripensare l’architettura europea. Sempre Delors immaginava allora un’Europa “a cerchi concentrici”: il primo cerchio federale, il secondo a natura economica, il terzo per la cooperazione con l’Europa orientale e il quarto – il più largo – per inglobare altri consessi internazionali.

Diverse (anche molto) le soluzioni, ma un medesimo fine: differenziare i livelli di integrazione, per consentire all’Europa di evolvere anche di fronte a divergenze di interessi, differenti volontà politiche o livelli di sviluppo economico diseguali. Oggi è la crisi a riproporre il tema dell’Europa a due velocità. Per alcuni soluzione, per altri tomba del processo di integrazione. Già perché è il concetto stesso di Europa a due velocità ad essere un’arma a doppio taglio. Occorre chiarirsi sulla portata e soprattutto sulla natura della differenziazione. Se il discrimine venisse individuato nella maggiore o minore ricchezza, il progetto sarebbe fortemente discriminatorio e, come tale, negativo per il futuro stesso dell’Unione. Se invece la differenza di velocità risiedesse nella volontà politica, più o meno forte, di compiere scelte per mettere in comune politica e governance economica, be’, allora il progetto sarebbe tutta altra cosa. E, probabilmente potrebbe avere una ricaduta positiva per l’Ue. Il nocciolo duro degli avanguardisti, infatti, potrebbe fungere da traino, aprendo la strada a innovazioni politico-istituzionali non di poco conto. Attualmente i trattati europei già permettono meccanismi a velocità variabile. Si pensi alla cosiddetta cooperazione rafforzata che consente ad un numero limitato di Stati membri di progredire sulla via dell’approfondimento della costruzione europea, nel rispetto del contesto istituzionale. Questo l’escamotage che ha permesso – per fare un esempio recente e significativo – il varo della Tobin Tax. L’accordo di Schengen, ancora, riunisce solo i paesi che hanno optato per la libera circolazione delle persone. Ma se la differenziazione dovesse significare lasciare in dietro la cosiddetta Europa di serie B, abbandonando senza cure i morti sul campo di battaglia della crisi, questo sarebbe il più grande fallimento di tutto il disegno europeo. E l’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea, per cui “essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri” rimarrebbe, ahinoi, vuota retorica.


Questo mio contributo è stato originariamente pubblicato 
sul portale di Libertà e Giustizia, associazione nazionale di cultura politica.

martedì 23 ottobre 2012

Terzo round






Obama vs Romney, Romney vs Obama. Si è svolto ieri il terzo ed ultimo dibattito televisivo tra i due candidati alla Casa Bianca. E ora, inizia il countdown verso l’Election day del 6 novembre. Intanto, più o meno noti vignettisti si sbizzarriscono e ne ... disegnano di tutti i colori.


Ps: a proposito, perché i candidati alle primarie democratiche nostrane non prendono il buon esempio? Un confronto sui temi e suoi programmi non sarebbe, davvero, una cattiva idea. 


giovedì 18 ottobre 2012

I sogni son desideri


Alla domanda “Che cosa sognava di fare da grande?”, risponde: "Il pilota di Formula uno o il collaudatore di vacanze: andare in giro in posti bellissmi ed essere pagato per questo". A parlare è niente meno che Roberto Formigoni, intevistato su Sette del Corriere della Sera del – udite, udite! – febbraio 1997.

In pochi, non c’è che dire, riescono a raggiungere i propri sogni.

lunedì 15 ottobre 2012

Ci mancava questa




"La politica è attraente e piacevole, ma vista da fuori". Flavio Briatore smentisce – buon per noi – il suo possibile coinvolgimento nell’agone politico. Sulle pagine de 'La Stampa' era infatti apparsa la (temibile) notizia di un progetto di Silvio Berlusconi per una lista civica di imprenditori, con a capo proprio Briatore.

"Non farò mai politica, non mi interessa – ha tagliato corto l'ex manager di Formula 1, protagonista del reality 'The apprentice' in onda su Sky – però penso che tutti possano avere opinioni e parlarne. La politica dovrebbe essere fatta da gente che ha la passione ed i politici dovrebbero essere quelli che ti fanno vincere i mondiali, ma adesso non mi sembra sia così". 

Ipse dixit.